Terapie, farmaci e speranze contro il Covid-19: intervista al dottor De Donno

Il dottor Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova, ci spiega come affronteremo nel prossimo futuro il coronavirus: “Oggi abbiamo degli strumenti che ci permetteranno di affrontare una eventuale seconda ondata con più serenità”.  Terapie farmacologiche, tecniche di ventilazione polmonare, gli studi sul plasma ed infine l’impegno per la cura dei pazienti: “Li considero tutti i miei guerrieri”.

È un caldo giorno di fine agosto, le notizie sull’aumento dei contagi in Italia da coronavirus SARS-CoV2 si susseguono. La curva epidemica raggiunge ormai i livelli di maggio, con circa mille contagi al giorno. Il timore di una seconda ondata, ed il ritorno ad uno stato di emergenza sanitaria, si fa sempre più reale e preoccupa sia gli esperti che la gente comune. Raggiungiamo dunque al telefono il dottor Giuseppe De Donno per una intervista; con l’obiettivo di comprendere cosa i medici in prima linea hanno scoperto di questo nuovo virus e come cambierà il futuro delle cure.

In Italia quali strategie ci permetteranno di affrontare meglio il Covid-19 in caso di una seconda ondata epidemica?

“È una risposta molto articolata; noi sappiamo che la malattia da coronavirus SARS-Cov2 è una patologia composita, caratterizzata da diverse manifestazioni cliniche, che vanno dalla semplice influenza alle polmoniti più o meno gravi. La cosa più importante da fare, proprio in questa fase, è coordinare molto bene il territorio.  È necessario che i medici di medicina generale ed i servizi territoriali di igiene pubblica abbiano più strumenti, in modo da poter gestire le forme lievi di malattia proprio sul territorio e così che in ospedale giungano invece le forme più gravi. Infatti nella precedente ondata pandemica gli ospedali venivano coinvolti anche per le forme lievi. L’ospedale invece dovrà interessarsi delle forme di polmonite, delle forme di malattie da coronavirus con insufficienza respiratoria e di quelle che necessitano di supporto con ventilazione meccanica invasiva o non invasiva”.

Un paziente affetto da Covid-19 oggi sarebbe curato diversamente rispetto a marzo?

“Rispetto alle prime settimane di pandemia direi di sì, rispetto al mese di maggio invece no. Quello che abbiamo imparato nelle prime settimane e quanto è stato messo appunto in pratica dal mese di aprile in poi. Le conoscenze con le quali ci siamo misurati nelle ultime settimane di pandemia sono quelle che ci permetterebbero di affrontare la seconda ondata”.

In questi mesi abbiamo tanto sentito parlare di ventilatori per il supporto respiratorio. Quali nuove conoscenze sono state acquisite sul campo?

“Quello che è emerso, e che era un po’ in contrasto con l’esperienza cinese, è che la ventilazione meccanica non invasiva ed il supporto con pressione positiva continua delle vie aeree permette di ottenere, anche nelle forme molto gravi, un esito positivo per i pazienti. Dunque l’intervento più precoce di ventilazione meccanica non invasiva può garantire un risultato più favorevole. In più noi abbiamo utilizzato la pronazione in veglia nei pazienti in ventilazione meccanica non invasiva; significa far ventilare di pancia il paziente, in modo che le parti più declivi (più basse, N.d.R.) del polmone rimangano più areate possibile. Questo perché sono proprio le parti più declivi del polmone che vengono maggiormente coinvolte nelle polmoniti interstiziali da coronavirus. Abbiamo vicariato la procedura della pronazione dai colleghi della rianimazione che sono stati nostri maestri, e questo da Mantova si è diffuso in tutto il paese. Riguardo le pressioni utilizzate, abbiamo usato pressioni intermedie, non ci siamo spinti in pressioni elevate per ridurre i rischi di barotrauma (trauma da pressione a carico dei polmoni, N.d.R.). Anche nel caso della CPAP (sigla inglese che deriva da Pressione Positiva Continua delle vie Aeree, N.d.R.), questa è stata impiegata nelle aree Covid per la sua semplicità di utilizzo ed anche qui non abbiamo impiegato pressioni elevate, ma intermedie”.

Con quali terapie farmacologiche sono stati ottenuti risultati migliori?

“Ci hanno dato migliori risultati cortisone ed eparina; mentre il Remdesivir (un farmaco antivirale, N.d.R.) secondo gli studi sembra funzionare nelle fasi precoci di malattia. Noi come medici di terapia semi – intensiva eravamo già abituati ad usare cortisone ed eparina a dosaggio terapeutico, ed è appunto quanto fatto in occasione di questa pandemia. Abbiamo dunque sempre impiegato il cortisone e l’eparina a dosaggi più o meno pieni, facendo firmare all’occorrenza ai pazienti un consenso informato.

Quali altre conoscenze sono state acquisite sui farmaci?

Si è utilizzato un po’ di tutto, dal Tocilizumab ad altri antireumatici, con risultati parziali, e non sempre univoche soddisfazioni. I medici non addetti alla terapia intensiva hanno utilizzato di più questi farmaci, che però non hanno portato una grande soddisfazione nell’aumentare la sopravvivenza e nei risultati clinici. Invece noi medici intensivisti gli antiretrovirali li abbiamo sempre sospesi perché insieme all’idrossiclorochina hanno in comune l’effetto collaterale della diarrea; e noi dovendo pronare i pazienti (posizione a pancia in giù impiegata durante la ventilazione, N.d.R.) non potevamo permetterci questo effetto collaterale. Infine sul Remdesivir c’è uno studio secondo il quale nelle forme non gravissime parrebbe aumentare la sopravvivenza. Ed è verosimile che partirà uno studio regionale lombardo, mettendo a confronto Remdesivir con il plasma iperimmune”.

Da poco è stato pubblicato lo studio suo e dei suoi colleghi, dove si evidenziano i benefici della terapia con plasma iperimmune. Quali saranno i prossimi sviluppi scientifici?   

“Innanzitutto in questi giorni è uscito uno studio simile al nostro, osservazionale, su pazienti sottoposti a terapia con plasma di paziente convalescente che hanno confermato i nostri risultati. Ovvero una netta riduzione della mortalità statisticamente significativa, una riduzione del tempo medio di ventilazione meccanica e del ricovero ospedaliero. Tuttavia gli studi come il nostro sono stati fatti in “guerra. Aspettiamo anche di vedere gli eventuali studi randomizzati e controllati (in sintesi studi scientifici dove vengono confrontati trattamenti diversi, N.d.R.). E così continua il dottor De Donno: “Infatti adesso in Italia c’è lo studio ‘Tsunamy’, uno studio nazionale coordinato dal Centro di Pisa e dove per Mantova io sono il ‘Principal Investigator’, insieme a due ‘Co – Investigator’: il dottor Casari, primario di Malattie Infettive, ed il dottor Castelli, primario della Rianimazione. Inoltre sia io che il dottor Franchini, primario dell’Ematologia, stiamo conducendo due studi paralleli sul plasma: il primo è lo studio ‘Rescue’, che prevede l’utilizzo di plasma di paziente convalescente nelle strutture per anziani con l’obiettivo di ridurre la mortalità. Ormai è in via di definizione, di chiusura, perché abbiamo già arruolato il numero prefissato di pazienti. Mentre il secondo studio è il protocollo ‘Clean’ volto a negativizzare i pazienti cronici positivi al coronavirus. Per questo studio abbiamo già arruolato quattro pazienti che si sono già negativizzati dopo mesi di positività al tampone per coronavirus”.

Come si può diventare donatore di plasma?

“Se uno è donatore abituale può donare il plasma, perché c’è sempre bisogno di plasma a prescindere dalla pandemia. Se uno è un paziente convalescente, cioè ha superato il coronavirus ed ha sviluppato una immunità, cioè ha una quantità di immunoglobuline che possono avere attività neutralizzante nei confronti del virus, dunque la persona può donare purché abbia il tampone negativo. La donazione è un atto molto semplice, basta contattare il centro trasfusionale di riferimento. Il paziente dona così 600 millilitri del suo plasma; secondo il precedente protocollo con questi 600 millilitri si confezionavano due aliquote di 300 millilitri, mentre oggi secondo il protocollo ‘Tsunamy’ si  realizzano tre sacche di 200 millilitri. Queste sacche vengono stoccate e congelate. Al momento dell’utilizzo vengono neutralizzate, cioè vengono sottoposte a neutralizzazione virale, e vengono somministrate come si somministra abitualmente il plasma”.

C’è la storia di un paziente che l’ha colpita di più?

“Tutte le storie dei nostri pazienti me le ricordo come se fossero miei familiari, abbiamo stretto dei rapporti di affetto ed amicizia che ancora oggi mi riempiono di pensieri, li considero tutti i miei guerrieri. Una storia che mi è rimasta impressa è quella di un marito e di una moglie. Ricoverati entrambi nella mia terapia intensiva, la moglie nella sezione A ed il marito nella sezione B, ed ambedue con due gravi forme di insufficienza respiratoria. La difficoltà è stata quella di mitigare le notizie fra i coniugi perché la moglie ha rischiato più volte di morire. La nostra ostinazione, il grande lavoro fatto, ci ha permesso di riportare la paziente allo svezzamento dal supporto respiratorio. E poi marito e moglie si sono riuniti, e hanno deciso di riunirsi anche religiosamente. Questo è stato un bel gesto di rinascita alla vita”.

Nel caso di una seconda ondata, ci troveremmo secondo lei in uno stato di emergenza come avvenuto in primavera?

“Quello che abbiamo visto nelle ultime di settimane è un progressivo aumento di contagi, e dunque un aumento delle manifestazioni cliniche. Tutti concordiamo che più aumenta la diffusione del virus, più il rischio di una seconda ondata è alto. Il problema è che non sappiamo cosa succederà nel periodo freddo, si fanno solo delle ipotesi. Però ci siamo fatti una grande esperienza sulla gestione delle varie forme cliniche da coronavirus. Pur non sottovalutandone l’aggressività e la mortalità, io mi sento moderatamente più tranquillo nella gestione di queste manifestazioni cliniche, così come gli infettivologi ed i rianimatori”.

Sta cambiando il lavoro del medico a seguito della pandemia?

“Il lavoro del medico è cambiato già da febbraio. È successo qualcosa che ci ha segnato profondamente, come una cicatrice indelebile sul nostro cuore o come un tatuaggio indelebile sulla nostra pelle. Nessuno di noi potrà dimenticare quanto successo nei tre mesi della pandemia, e credo che una seconda ondata di pari intensità sarebbe difficile da sopportare anche solo emotivamente, non solo dal punto di vista professionale. Tuttavia oggi abbiamo degli strumenti che ci permetteranno di affrontare una eventuale seconda ondata con più serenità”.

Il dottore Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia dellOspedale Carlo Poma di Mantova.

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Intervista realizzata in collaborazione con la giornalista Nunziata Fiorito

Autore dell'articolo: Fabio Pirracchio