L’idea di un incontro con Renato Guttuso a Varese per un’intervista, mi era stata data da un editore di Catania di una piccola ma interessante rivista che si occupava anche d’ arte. Poter intervistare il maestro mi entusiasmava: era il novembre del 1985, avevo appena trent’anni ma ancora non riuscivo a liberarmi dal velo di timidezza che a volte mi faceva arrossire quando dovevo impegnarmi in un lavoro, quello della giornalista, che comunque amavo tanto. Il maestro mi aspettava nella sua villa di Velate. Se ne stava in piedi nello splendore di una giornata particolare, con un cielo azzurrissimo, interrotto a tratti dal verde degli alberi e dal color nocciola dei tronchi che sembravano lì solo per indispettire sprazzi di nuvole. Egli subito mi aveva fatto entrare nello studio mentre alcuni suoi amici, che mi aveva presentato, si avvicendavano nella stanza silenziosi ed attenti. L’incontro con il maestro, un bell’uomo con uno sguardo profondo (avevo subito pensato che le foto nei giornali non gli rendevano giustizia) è stato per me come un fulmine di simpatia misto a riverenza. Ma anche lui mi aveva immediatamente messa a mio agio: mi spiegava, con un calmo sorriso, della villa, che era stata una antica scuderia, ereditata dalla moglie Mimise e ristrutturata in parte, della Fondazione che era nata proprio in quei giorni, e poi naturalmente incalzato dalle mie domande si parlava delle sue opere: dalla Fuga in Egitto nella Terza Cappella del Sacro Monte di Varese, del Bosco d’Amore, e della Crocifissione, opera che in quel momento era esposta a Genova ed aveva creato qualche polemica, e di altro ancora. Ma in questo mio ricordo del grande pittore, scavando nelle parole della mia intervista, non scritte in quel momento ma ancora vive se così si può dire di un “fuori onda”, mi piace ricordare il momento in cui Guttuso mi parlava quasi con ardore anche dei colori che dovevano resistere al freddo, al sole, alla pioggia, e delle resine acriliche. E ricordava i suoi amici d’infanzia che definiva “carissimi” e “gente semplice”. Citava una cerchia di persone, che incontrava nella sua residenza di Roma, però in modo precisava non sistematico, tranne l’illustre professor Natalino Sapegno che invece vedeva tutte le domeniche, e il vescovo Costantini “molto aperto” e aggiungeva “io rispetto le sue idee, come lui le mie”. Ed ancora fra gli amici di cui mi parlava c’erano il grande scrittore Moravia, Paolo Bufalini, e Cesare Brandi in quel momento a Siena. Naturalmente tra gli amici del maestro c’era qualche politico ma egli osservava che si stava insieme non per parlare di politica ma perché “ci si conosce da 40 anni.” La cosa più bella per me: alla fine un omaggio alla Sicilia. Guttuso mi chiedeva se ero di Catania. Io ho precisato che il mio paese era Giarre, ma ho citato anche la vicinissima Riposto perché c’è il mare. Il maestro mi guardava meravigliato: ero precipitata in una gaffe “ma come può pensare” ha esclamato “che non conosca Giarre, Riposto e la mia Sicilia!”.
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